GDO e non food, verso una nuova alchimia.
Puntare sulla qualità del servizio e dell’assortimento è il fattore decisivo per provare a competere con l’online e con le catene specializzate. E così l’ipermercato diventa un po’ department store.
Il non food segue da quindici anni un complessivo trend di crescita (+2,2% in media, +12% dal 2020 al 2021) che lo rende molto appetibile e conteso tra gli attori del mercato. I comparti non food monitorati dall’Osservatorio di GS1 sono tredici (abbigliamento e calzature, elettronica di consumo, arredamento, bricolage, articoli per lo sport, prodotti di profumeria, casalinghi, automedicazione, edutainment, ottica, tessile casa, cancelleria e giocattoli) e nel 2021 valevano 104,7 miliardi di euro. La contesa dei consumi non food spazia dal piccolo ferramenta (che cresce) fino a Decathlon, passando per il supermercato e ovviamente per l’online. L’e-commerce accresce inesorabilmente le proprie quote, spinto dalle nuove abitudini di acquisto, dalla domanda di velocità e da sistemi di consegna sempre più pronti a soddisfare le varie esigenze di consumo. Il negozio specializzato viene scelto per la ricchezza dell’offerta, per la perizia, per la possibilità di fare paragoni tra prodotti e di ricevere assistenza. Secondo GS1, quasi la metà (43%) di coloro che scelgono un negozio specializzato hanno addotto come motivazione di poter trovare tutto ciò che gli serve. Un consumatore su quattro (26,8%) cerca anche offerte promozionali. La GDO ha il privilegio di poter essere una meta casuale (acquista prodotti non food al supermercato chi si trova già lì per la spesa alimentare), ma negli ultimi anni ha spesso pagato il prezzo di un concept poco studiato e quindi inadatto a presentare le diverse categorie merceologiche, perdendo rilevanza. In particolare gli ipermercati, caratterizzati da spazi molto ampi, capaci di accogliere categorie come l’abbigliamento e i grandi elettrodomestici, hanno sperimentato criticità nell’allestimento, nella continuità dell’assortimento e nell’assistenza alla clientela, creando zone grigie che non riuscivano ad attrarre né tantomeno a fidelizzare il cliente.
Oggi alcuni ipermercati tentano la strada della terziarizzazione creando partnership con insegne non-food, per affiancare agli alimentari servizi di qualità – dove ottica, parafarmacia e abbigliamento risultano i più efficaci e graditi. I primi esperimenti hanno avuto successo, consentendo ai retailer di ampliare le proprie strategie di sviluppo e consolidamento sul mercato. Per esempio, la partnership Finiper-Unieuro del 2019 ha inaugurato questa esperienza con risultati positivi, mettendo a disposizione dei clienti un migliore know-how (laddove è strategico affidarsi ad addetti con una expertise mirata) e raggiungendo la quota di ventuno negozi co-gestiti in tre anni. Kasanova ha sperimentato formule snelle e cross category di retail, utilizzando il modello dello shop-in-shop all’interno dei supermercati. Anche Upim – insegna del gruppo Ovs – ha all’attivo un progetto consolidato con alcuni ipermercati, dai quali ha ricevuto la gestione dei reparti di abbigliamento che sorgono in adiacenza al food. Il suo intervento spazia dalla pianificazione e fornitura dell’offerta alle tecniche di visual merchandising, e ha registrato un forte impulso alle vendite, intercettando le preferenze di molti clienti dell’ipermercato che hanno apprezzato il sodalizio.
Un’altra partita su cui il canale moderno rilancia è il biologico, naturalmente non food. In particolare nel settore della cosmesi sono bastati cinque anni per veder raddoppiare il numero delle insegne (otto nel 2017, quindici nel 2021) che commercializzano cosmetici naturali o biologici certificati: in media, ogni catena offre 44 referenze bio. Sale sul podio la tedesca Dm con 419 prodotti, ma la partita è ancora aperta e chissà che nei prossimi mesi non arrivi qualche sorpresa da un player della GDO. Anche il segmento baby è ben presidiato, con undici catene che propongono prodotti naturali per la cura dei più piccoli.