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Made in Italy, i consumi arretrano ma restano primi

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Il richiamo esplicito all’italianità, analizzato da GS1 su 26.000 referenze, non salva il largo consumo dalla crisi, ma rappresenta un criterio di scelta per metà dei consumatori. Eccezione per il marchio DOP che cresce anche in volumi.

I tagli al carrello della spesa non risparmiano i prodotti che si presentano come italiani o regionali. Secondo l’analisi dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, nel canale supermercati e ipermercati, l’ampio paniere di oltre ventiseimila prodotti che – con un marchio o un claim esplicito – richiamano la loro italianità in etichetta ha perso il 4,5% dei volumi rispetto all’anno precedente. Il giro d’affari, invece, è cresciuto di +7,4%, superando gli undici miliardi di euro.

La flessione dei volumi non mette però in crisi la preminenza del made in Italy sul carrello della spesa: i prodotti che riportano on-pack un claim relativo alla loro italianità (come “100% italiano” o “prodotto in Italia”), un’indicazione geografica europea o l’immagine della bandiera italiana restano protagonisti: rappresentano il 27,7% delle centotrentanovemila referenze analizzate dall’Osservatorio Immagino e contribuiscono per il 28,3% al giro d’affari di supermercati e ipermercati. Secondo una survey di Yoodata, in Italia il 44% degli intervistati si riconosce “molto” (26%) o “moltissimo” (18%) nel profilo di un consumatore che cerca prodotti KM0 o comunque della propria regione di residenza. Trattando di un paniere più ampio come il made in Italy, la quota sale al 47%. In Francia, nonostante la ricchezza di tradizioni enogastronomiche, risalta che la ricerca di prodotti regionali scenda fino al 31%.

L’Osservatorio di GS1 distingue tra diffusione dei segni di riconoscimento sugli scaffali e capacità di conversione. Se dunque l’indicatore di italianità più utilizzato è la bandiera tricolore (su più di quindicimila prodotti), quello con la maggiore crescita annua è il marchio DOP (disciplinato dall’Unione Europea), che ha messo a segno un +9,1%, totalizzando settecentosedici milioni di euro di sell-out, e – punto importante – è anche l’unico degli otto claim di questa categoria ad aver registrato un aumento delle vendite in volume (+1,6%).

Anche il localismo su base regionale ha una forte rappresentanza, con alcuni territori emergenti. Sono 10.420 i prodotti alimentari venduti in supermercati e ipermercati sulle cui confezioni sia indicata la regione di riferimento. Nel 2023 questo affollato paniere ha registrato un +5,2% a valore (superando i tre miliardi di euro) e un -3,7% a volume. Al lordo dell’inflazione, tutti i panieri regionali hanno aumentato il loro giro d’affari, con crescite a doppia cifra per Molise (+17,3%), Puglia, Sardegna, Valle d’Aosta e Basilicata. Di queste, Molise, Basilicata, Valle d’Aosta e Puglia hanno accresciuto anche le vendite a volume. Guardando al fatturato totale, la classifica delle regioni in etichetta vede confermato il podio: primo posto per il Trentino-Alto Adige (oltre quattrocento milioni di euro), secondo posto per la Sicilia e terzo per il Piemonte.