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Parola di influencer, costa di più ma ci credono anche i brand

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Popolarità e credibilità dei contenuti incentiva l’investimento dei brand (+9% in Italia, +14% nel mondo) che ora si rivolgono più spesso agli influencer con largo seguito.

Da diversi anni gli influencer hanno raggiunto una maturità che li fa preferire alle tradizionali celebrities cooptate dal mondo dello spettacolo, per diventare testimonial di un brand. La ragione principale sta nella capacità degli influencer – certificata dal gradimento dei loro contenuti organici – di instaurare un legame diretto e personale con i follower. Il Future Consumer Index di EY conferma questo trend, segnalando che il 66% dei consumatori di età tra i diciotto e i cinquant’anni segue almeno un influencer sui social, orientando i propri acquisti ai loro consigli (“con questa colla da legno mi sono trovato benissimo”) o evidenti caratteristiche del lifestyle.

Spesso i follower riconoscono una competenza specifica all’influencer: che siano trend-setter dello street wear o maghi delle ricette vegane, si trovano nella posizione ideale per promuovere la categoria di prodotto che caratterizza i loro approfondimenti. Ben due terzi (74%) del campione di EY ritiene affidabili le loro raccomandazioni sui prodotti, mentre il 61% dichiara di aver effettuato acquisti basandosi sui loro suggerimenti. Inoltre si presuppone che il costo di un influencer, per un brand, sia più proporzionato (rispetto all’ingaggio di un VIP) al risultato di visibilità che vuole raggiungere. Questo ha permesso anche ai piccoli e medi influencer di farsi un nome e diventare partner di grandi brand, quando il loro contributo si dimostrava adeguato agli obiettivi di una specifica campagna.

 

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In Italia, il canale vale 352 milioni di investimenti pubblicitari ed è in crescita. Dai numeri presentati al convegno Influencer Marketing 2024 di UPA, risulta che le nostre aziende hanno investito il 9% in più rispetto a un anno fa. Nel mondo, si stima che il settore abbia superato i ventiquattro miliardi di dollari con un trend annuo del 14% che continuerà fino al 2025. Una novità riguarda le dimensioni dell’audience: mentre si consolida l’attrattiva dei macro-influencer (da centomila a un milione di follower), il potenziale dei micro (da diecimila a centomila) e nano-influencer (quelli con audience di nicchia, molto fidelizzati) sembra calare, in parte a causa dell’aumento dei costi e della saturazione dei social media. Complici le restrizioni all’uso dei dati personali, che riducono la portata e l’efficacia delle campagne sponsorizzate, i grandi influencer si configurano sempre più come “emittenti”, mentre la pubblicità che veicolano è un prodotto cercato spontaneamente dall’utente (da push, a pull). Il 2024 segna quindi un ritorno a collaborazioni con personaggi di ampia visibilità: i brand sono passati dal 30% al 40% di preferenze per figure affermate, secondo un nuovo studio di Linqia, che possono garantire un ritorno più sicuro sugli investimenti. La collaborazione con micro-influencer è scesa dal 74% al 62%, anche a causa dei relativi costi che sono aumentati fino al 20%. Non si prevede comunque la progressiva scomparsa dei micro-influencer, ma piuttosto una revisione dei contesti, degli audience e delle categorie di prodotto che potrebbero essergli affidati.

Anche la politica, che negli USA intrattiene trasparenti rapporti di scambio economico e di consenso con l’impresa, si è appoggiata alla categoria degli influencer. Secondo una ricerca di Pew Research Center, quasi il 40% degli americani under 30 si informa tramite TikTok, così anche le campagne elettorali investono molto sul talento persuasivo dei social media creators. Un tema che anche in Europa è al vaglio dei governi riguarda l’istituzione di una disciplina che tuteli il diritto all’informazione dei cittadini e permetta di distinguere chiaramente tra genuinità e sponsorizzazione di un contenuto. Intanto, la categoria ha ottenuto il suo codice Ateco.