Over the rainbow, i numeri dietro l’attivismo LGBT+
Milioni di persone nei Pride italiani, ora anche i brand si schierano a favore dei diritti civili tra accuse di rainbow washing e ritorsioni dei conservatori.
Schierarsi dalla parte dei diritti può sembrare un bell’affare. Secondo dati OMS, la comunità LGBT+ in Italia ha un potere di acquisto di un terzo superiore alla media: sei milioni di persone medio-alto spendenti che fanno gola a molti brand e, in maniera sempre più organizzata, si ritrovano associate a grandi nomi dell’industria nel mezzo dei cortei. Il Pride di Roma del 10 giugno, un milione di manifestanti secondo gli organizzatori, accanto al grido di “QueeResistenza” ha fatto spazio ai marchi di Walt Disney, Vitasnella, Heineken, Peroni, Garofalo, Durex, American Express e Apple. Tra pochi giorni a Milano anche Coca-Cola e PayPal. Alcuni sponsor inviano delegazioni di dipendenti da altri paesi o allestiscono un carro per la sfilata; l’organizzazione ricambia, secondo modelli mutuati dai grandi eventi dello sport, offrendo copertura social e visibilità in loco, compresa l’autorizzazione a distribuire gadget ufficiali ai partecipanti. Prodotti da Pride.
Per Paolo Iabichino, intervistato da Domani, alcuni investimenti troppo isolati sulla GenZ sarebbero persino vani: «A loro fa lo stesso effetto di uno spot in tv, è rumore di fondo: non si affezionano a una marca perché ricevono una bottiglietta con l’etichetta arcobaleno al Pride. Il giorno dopo l’hanno dimenticato, a meno che il brand non si ricordi di quei temi nel resto dell’anno». E sull’operatività di lungo periodo del brand activism si gioca non solo l’efficacia di un’operazione commerciale, ma anche la percezione di serietà del brand. «Se fino a qualche anno fa si reputava coraggioso esporre una bandiera arcobaleno accanto al logo – racconta ad Alley Oop Isabella Borrelli, attivista LGBT+ e consulente di diversity – oggi conta cosa si fa per e con i propri dipendenti, fornitori, clienti. Conta esporsi nel dibattito pubblico quando è necessario e superare il legislatore nazionale con politiche interne di welfare a sostegno delle coppie LGBT+». Secondo Ilga Europe, l’Italia si classifica male nella tutela delle persone LGBT+: in Europa è trentaquattresima. Dati Istat e Unar confermano che il 41% delle persone si considerano a causa del proprio orientamento svantaggiate in ambito lavorativo, ovvero meno riconosciute, peggio retribuite e meno avviate alla carriera. Quasi due persone su tre (il 61,2%) evitano di parlare della propria vita privata per nascondere possibili particolari sfavorevoli.
Su un altro fronte serpeggia la paura di scontentare una fetta di consumatori e cittadini che vorrebbero contrastare l’ampliamento dei diritti civili e reagiscono male – di regola sui social a parole, ma anche con la violenza – alle prese di posizione dei brand. I casi più emblematici si osservano negli States, dove una capsule collection di Target dedicata al Pride Month ha fatto infuriare i più conservatori. Numerosi punti vendita Target sono stati presi d’assalto da “attivisti” reazionari che hanno vandalizzato gli interni, danneggiato la merce incriminata, aggredito i dipendenti e persino recapitato pacchi bomba. North Face e Bud Light hanno subito episodi simili, che certamente non saranno gli ultimi. Si arriverà dunque a distinguere tra brand che non mollano la presa, accettando il rischio di qualche boicottaggio, e brand che per quieto vivere e migliori affari prediligono il silenzio. In Italia segue un trend simile la politica, come nel caso delle regioni Lazio e Lombardia che sono corse ai ripari revocando il proprio patrocinio alle manifestazioni di orgoglio LGBT+.