Perché il film Barbie non è una sciocchezza e perché rivoluziona il branded content
Dedicato a chi pensa che sia “solo” un prodotto per teenager. Il film sulla bambola più famosa di sempre potrebbe essere una milestone per il branded content.
Tra qualche giorno il film Barbie arriverà sul grande schermo. Film di cui si parla da settimane (mesi): la bravissima protagonista, il cast di super star Hollywoodiane, il taglio neo femminista dato da sceneggiatura e regista, la crisi della vernice rosa (ne è stata usata così tanta che, nel mondo, sono finite le riserve). Tuttavia il fenomeno Barbie è interessante, per chi si muove nell’ambito del retail e di tutto quello che gira attorno, perché potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui i brand promuovono i loro prodotti. Innanzitutto, se restassimo solo nel mondo Mattel, l’azienda ha dichiarato di avere in cantiere ben quarantacinque film basati sui suoi altri giochi. Lo rivela un documentatissimo articolo del New Yorker, che ripercorre anche le tappe che hanno portato Barbie dalle camerette agli schermi e che risale al 2018, quando è stata creata la Mattel Films, divisione che ha l’obiettivo di tramutare i prodotti dell’azienda in produzioni cinematografiche. E così, nei prossimi anni, avremo il film delle macchinine Hot Wheels (per le quali è stato scritturato un mostro sacro come J.J. Abrams) il gioco di carte Uno e i robottini Rock ‘Em Sock ‘Em Robots, per il quale si parla della presenza della dark star Vin Diesel. Produzioni cinematografiche in grande, grandissimo stile. E grande grandissimo budget. Che trasformano radicalmente il rapporto tra inserzionisti tradizionali e consumatori.
Per decenni, la pubblicità è stata qualcosa che il consumatore doveva sorbirsi per guardare una serie tv o una partita (i più vecchi ricorderanno la campagna Non s’interrompe un’emozione), un incomodo che, oggi, grazie ad un extra pagamento sulle piattaforme di streaming, si può evitare di guardare. Oggi la pubblicità esce dalla logica dello spot 30 ss ed entra direttamente nel film, ne è parte costitutiva, anzi presupposto. E questo avviene perché si è capito, già da un po’, che quello che rende di più è la co-creazione di contenuti. E che, piuttosto che interrompere un film, forse è più utile crearlo. Un modello che non è più branded content, ma è content pagato dai brand. In parte è già successo: il boom dello stile anni ‘80 affermatosi dopo Stranger Things, o quello degli scacchi dopo The Queen’s Gambit, piuttosto che le scarpe Manolo Blanik ai tempi di Sex and the City. Oggi però siamo davanti ad un nuovo fenomeno: il marchio che crea, dall’inizio, prodotti di intrattenimento perfettamente in linea con il marchio stesso e in grado di connettere (leggi fidelizzare) i consumatori a un livello completamente diverso, i marketer che, al posto di chiamare i produttori di Hollywood (o di Cinecittà) per promuovere il film, li chiamano per crearli. Una rivoluzione copernicana che fa sì che gli adv non durino più 30 ss ma diventino lunghissimi spot. Dove i brand creeranno direttamente cultura pop piuttosto che limitarsi ad utilizzarla per raggiungere i consumatori. Eh sì, sarà interessante vedere cosa innescherà Barbie che, come noi donne già sapevamo, è molto più di una semplice bionda.