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Agroalimentare, bene
(ma si può fare di più)

agroalimentare export

Il settore è al primo posto per il valore aggiunto generato ma sconta ancora una frammentazione eccessiva e ricavi medi limitati.

Un pilastro per il sistema Italia. È l’agroalimentare italiano, che continua a crescere, senza sentire il peso dell’inflazione e l’impatto della crisi geopolitica. Tra il 2015 e il 2022 ha segnato un +31% , nel 2022 ha raggiunto un fatturato di 251,1 miliardi di euro (176,7 dei quali provenienti dai prodotti food&beverage e 74,4 dal comparto agricolo) e lo scorso anno le esportazioni hanno raggiunto un valore pari a 62,2 miliardi di euro, che si inserisce in un trend di crescita media annua del +6,4% (nel periodo 2010-2023). I dati vengono  da una ricerca condotta da The European House-Ambrosetti realizzata in occasione dell’ottavo forum “La Roadmap del futuro per il Food&Beverage” di Bormio, che si è tenuto qualche giorno fa. L’Italia è primo esportatore al mondo pasta (no surprise!) passata di pomodoro e castagne. Secondi per l’esportazione mondiale di vino, farina di riso, nocciole, mele e kiwi. Crescono in valore le eccellenze come formaggio e olio, che cresce del  +15%, complice anche la minore produzione in UE, trainata al negativo dalla Spagna.

Grandi successi, anche se non mancano le nubi. L’Italia rimane un Paese più orientato sulla trasformazione, e nel 2023, la bilancia commerciale della filiera agroalimentare italiana è stata negativa, con un saldo di -0,7 miliardi di euro. Tra le prime quattro economie UE – Germania, Francia e Spagna – l’Italia si colloca in ultima posizione.  Pesa anche il fenomeno dell’Italian Sounding, cioè l’uso di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari che sono italiani, ma vorrebbero tanto esserlo, mettiamola così.