H&M raddoppia gli utili, nel nuovo core business c’è il second-hand.
Le accuse di greenwashing non fermano il colosso svedese del fast fashion, che aumenta le vendite e si rafforza con il second-hand di Sellpy. Ma la rivoluzione sostenibile è molto lontana.
I profitti di H&M, superata la flessione in negativo di dicembre, volano oltre il doppio di un anno fa, passando dai 19 milioni di euro del primo trimestre 2022 ai 47 milioni degli ultimi tre mesi. E nel favorevole bilancio incidono per la prima volta i numeri di Sellpy, piattaforma di second-hand partecipata all’80% da H&M, che producono dividendi per un miliardo di corone svedesi (circa 80 milioni di euro) e potrebbero mettere in discussione il modello di business “tradizionale” del fast fashion. Il pricing democratico e l’infinita varietà di nuove collezioni proposte da colossi come Inditex, H&M e Shein (Zara ne propone ventiquattro all’anno; H&M dalle dodici alle sedici, aggiornate settimanalmente) non tengono conto e non possono valersi di un forte elemento competitivo: il lusso. Il mito del lusso accessibile sembra davvero aver fatto breccia nella sensibilità comune, guardando l’impennata di consumatori che scartano le colorate novità del fast fashion per esplorare seducenti occasioni vintage. I second-hand lovers dichiarati sono i più giovani, spinti dal trend della circolarità, e anche gli shopper “cauti” che lo usano per provare marchi nuovi a basso costo. Ma la ricerca di qualità del design e dei tessuti, unita al desiderio di indossare un capo distintivo, orienta sempre più decisori di acquisto verso una cultura dell’usato e del ri-uso che scardina il modello tradizionale di fast fashion, ed è in rapidissima ascesa. Si tratta di un mercato che in tre anni ha triplicato il suo valore arrivando a quasi 120 miliardi di dollari, secondo il report di Vestiaire Collective e Boston Consulting Group, e può continuare a crescere del 30% ogni anno. Tra i siti più gettonati ci sono TheRealReal di Stella McCartney, FarFetch, Re-See e Byronesque, il britannico Depop, il tedesco Rebelle, l’italiano Yoox.
Ancora più mitica del lusso accessibile, è la sostenibilità: un nuovo studio pubblicato su Harvard Business Review ha fatto il punto sulla “presunta innovazione” dell’industria vestiaria, che negli ultimi venticinque anni non ha fatto altro che aumentare il suo impatto ambientale. I primi dati lampanti riguardano i volumi: la produzione di camicie e scarpe è raddoppiata nell’ultimo quarto di secolo, ma il vero problema è che tre capi su quattro finiscono bruciati o seppelliti nelle discariche. Pesano novantadue milioni di tonnellate i rifiuti tessili prodotti ogni anno. “The Myth of Sustainable Fashion” di Kenneth P. Pucker riconduce il fallimento della moda sostenibile alla liberalizzazione del commercio, alla globalizzazione e al dumping dilagante; in altre parole si riferisce all’impasse – o all’inerzia – dei governi nella regolamentazione delle attività industriali (produzione, logistica, concorrenza, tutela del lavoro e dell’ambiente). A livello europeo si è già levata la voce di Frans Timmermans, VP della Commissione con delega Green Deal, che vuole “porre fine al modello del produci, compra e getta via, tanto dannoso per il pianeta, la nostra salute e la nostra economia”.
E in questi ultimi anni molti brand hanno dovuto difendersi da pesanti accuse di greenwashing. Noto per H&M il caso della “Conscious collection”, accusata di pubblicità ingannevole in Norvegia, nel 2019, perché la campagna dichiarava un valore aggiunto per l’ambiente su basi false o inconsistenti. I capi “conscious”, ironicamente, non fornivano informazioni abbastanza precise da conferire una vera consapevolezza sulla loro sostenibilità: il nylon e il poliestere riciclati, per esempio, non dicevano nulla sull’origine né sul loro impatto. Similmente, Asos ha preferito rimuovere un filtro di ricerca che identificava i prodotti riciclati per evitare un’indagine dell’autorità britannica. Molti altri big player della moda veloce (Uniqlo, Muji, Zara) hanno subito indagini e accuse analoghe, ora per buchi comunicativi rispetto allo smaltimento degli scarti ora per campagne sul cotone biologico che ne enfatizzano la lieve impronta ecologica ma tacciono clamorosamente sulla sua sostenibilità sociale.