Fashion, a qualcuno spiace fast.
Il 2023 inizia sotto buoni auspici per tutti i big player, ma è l’impatto ambientale che oggi pare indirizzare le scelte dei clienti.
Diciamoci la verità. In tempi di inflazione che sfiora (e a volte supera) il 10% i prodotti low cost fanno comodo. Lo dimostra il successo dei prodotti della marca del distributore, di cui abbiamo già parlato, e il generale boom dei discount. Dovrebbe valere anche per il fast fashion, ma invece non è così. Il settore risente di abitudini di shopping diverse e sempre più orientate al consumo consapevole. E così se il retailer alimentare, anche con sconti e PL, riesce ad attrarre il consumatore consapevole, le corsie delle marche di abbigliamento a prezzi bassi attraggono sempre meno l’aspirato target di riferimento: la Generazione Z.
Il punto non sono le vendite, che non vanno nemmeno male (come riporta Il Sole 24 Ore, il 2023 è stato finora un anno di ripresa a tutti gli effetti, nonostante il conflitto in Ucraina, che dalla fine di febbraio ha portato alla chiusura dei punti vendita in Ucraina, Russia e in alcuni casi Bielorussia). Il punto è che i consumatori di domani sono altrove. Una hit delle teenager come Shein è in crisi, schiacciata da controversie e lamentele per la scarsa qualità ed eticità degli abiti.
E così, a cercare di responsabilizzare il settore non ci sono solo le azioni di CSR dei retailer, come H&M e Inditex, ma anche l’Unione Europea. Bruxelles si sta impegnando per passare a un’economia sempre più circolare e climaticamente neutra. La Commissione ha da poco pubblicato la Textile strategy, una serie di norme che mirano a limitare la distruzione dei prodotti tessili, affrontare il tema del greenwashing e migliorare la comunicazione tra aziende e consumatori. Per un fashion meno fast, ma sicuramente più fashionable.